I BRAND NATIVI DIGITALI GUIDANO LA RIVOLUZIONE DELL’E-COMMERCE 2.0

Non più solo estensione del business, ma vero e proprio punto di partenza dello stesso. Il web sta diventando la prima casa dei brand della moda. Si chiamano brand “nativi digitali”, come li definiscono in America, ovvero quei marchi che nascono, e vivono online. Un fenomeno, questo, che è stato promosso dai grandi portali (come Amazon e Asos), e che si sta sviluppando sempre di più creando un sistema fiorente dove l’aumento delle vendite online (le cui stime prospettano un valore di 523 miliardi di dollari entro il 2020) va in tandem con la profonda in crisi in cui navigano i retail fisici. E’ ciò che si legge dal Pambianco Magazine di giugno 2018.

La differenza tra i brand nativi digitali e i player partiti dall’offline, è che i primi nascono come vere e proprie realtà direct-to-consumer, le quali gestiscono in completa autonomia l’intera filiera produttiva, dal fornitore fino al consumatore finale, estremizzando la customer experience grazie al fatto di essere stati disegnati per operare ed essere raccontati esclusivamente online. Mentre i secondi, invece, adattano semplicemente la propria realtà ‘tangibile’ al virtuale, non sempre ottenendo un risultato perfettamente integrato. Tra i plus dei brand nativi digitali, evidenziati dallo studio ‘The Top 25 digitally native vertical brands report 2017’ realizzato dalla piattaforma Pixlee, c’è l’adozione di un modello basato necessariamente sul rapporto diretto, il quale comporta una riduzione, non solo dei costi, ma anche delle asimmetrie informative. Un esempio è Warby Parker, il brand americano di eyewear che, eliminando gli intermediari, vende i propri prodotti a prezzi più competitivi, dando anche la possibilità di provare i modelli gratuitamente a casa propria. Un altro caso è quello del brand d’abbigliamento Everlane che, grazie al direct sourcing, può praticare una politica di trasparenza rendendo visibile la sommatoria dei costi dietro ciascun capo (dalla materia prima, alla lavorazione, fino al trasporto) e del markup ad esso applicato. Tra gli altri benefici, un’enfatizzata brand experience, grazie alla combinazione di prodotto, shopper experience e customer service che, promossi insieme online, vanno a costruire il brand. La distribuzione, del resto, è un elemento chiave per i “nativi digitali” che, assumendone la gestione diretta, dispongono sia di un maggiore controllo sullo storytelling del brand sia sulla ricezione dei dati riguardanti i consumatori. Proprio la relazione con il consumatore, che avviene anche, e soprattutto, attraverso i social network, è la chiave del successo di queste aziende, capaci di sfruttare i grandi numeri della rete pur mantenendo una connessione one-to-one. Questa nuova generazione, che ha aperto la via all’e-commerce 2.0, si lega inevitabilmente al fenomeno di blogger e influencer. Non a caso, infatti, sono molteplici i casi di star del web che hanno lanciato i propri brand partendo proprio dal successo social. Da Chiara Ferragni (con Chiara Ferragni Collection) a Mariano Di Vaio (con Mariano Di Vaio Collection), fino a Filippo Cirulli e Filippo Fiora(con Edhèn Milano), per citarne alcuni. Altri casi italiani, peraltro, dimostrano come le strategie di ‘entrata’ possano essere differenti, cioè non dipendere dal pregresso successo sui social, ma basarsi su altri driver (per esempio, la collaborazione con le fiere, vedi articolo successivo). I progetti da tenere d’occhio sono le piattaforme di Lanieri, per l’abbigliamento uomo su misura, Velasca, per le calzature made in Italy, e Tela Blu, per l’abbigliamento maschile. Le loro strategie, talvolta, hanno già portato a contaminazioni importanti con il mondo dei negozi reali.